Schegge impazzite di una realtà incomprensibile. Qualunque sia il giudizio sull’arte di oggi, emerge la difficoltà di comprendere cosa sia giusto fare. Tramontati i generi, gli stili, le tendenze, i movimenti e superato l’entusiasmo per l’introduzione dei nuovi media e per l’apparato tecnologico, tutto sembra possibile in un vagare disperato tra l’Essere e il Nulla. L’arte contemporanea riflette il visibile ma non insegue più l’invisibile avendo perso quella componente utopica progettuale che la rende esclusiva.
Dietro la superficie il nulla, proclamava Andy Warhol identificando una delle caratteristiche peculiari di un sistema basato esclusivamente sul desiderio assoluto di apparire, quasi che l’esistenza si giustifichi di per se stessa con la pretesa di eternizzare il presente e fermare l’istante che fugge.
Vero e falso, artificio e realtà non sono altro che due facce di una stessa medaglia in un rimescolamento delle forme e dei contenuti dove la ricerca non passa più attraverso l’assoluto ma il relativo.
In quest’ottica è chiaro che tutto orbiti intorno al caos, considerato come componente primario di una realtà in continua trasformazione.
Ma dietro al Big Bang non sembra d’intravedere nulla se non un nuovo caos generativo in una progressiva sottrazione dell’essere.
Se questo è il pensiero dominante, c’è chi fa eccezione, convinto che l’arte non debba diventare preda della propria nevrosi nel desiderio vanitoso quanto ingenuo di piacere.
In questa categoria di outsider si colloca Bruto Pomodoro che, a dispetto di molti suoi coetanei, insegue l’ordine costitutivo delle cose scegliendo di percorrere una strada del tutto individuale che potrebbe coincidere con l’astrazione organica. Un’astrazione, dunque, che non rimanda a se stessa ma coincide con la definizione di Theo Van Doesburg: “non c’è nulla di più concreto e reale di una linea, di un colore, di un progetto”.
La materia fluttuante e magmatica diventa corpo vivo, presenza fisica e inquieta, non priva di connotazioni simboliche nell’ambito di un’esperienza dove il segno si pone come presenza e apparizione.
“Il mio unico intento è rendere manifesta l’infinita potenzialità morfologica del vivente, attraverso la sua valenza comune archetipa, il simbolo che nei miei quadri costantemente si ripete”, avverte Bruto che in base alla sua esperienza di artista e di biologo affronta i codici algenici mettendoci senza pregiudizi dinanzi ad una delle questioni centrali della nostra esistenza, ovvero la riproduzione dell’individuo umano attraverso la “manipolazione, la ricombinazione e la programmazione del materiale genetico”.
Bruto, insomma, affronta il segreto della vita in una mostra dove arte e scienza si fondono creando una relazione armonica.
Il posthuman, il cyborg (uomo mezzo umano e mezzo macchina), le manipolazioni genetiche da tempo ossessionano l’arte contemporanea diventata essa stessa una sorta di Frankenstein romantico che utilizza la componente più spettacolare della ricerca scientifica per creare l’uomo cibernetico in grado di negare il proprio destino.
Bruto, invece, cammina in parallelo con la scienza cercando un’identità primigenia che va oltre la separazione tra “ars” e “scientia”. Le sue opere labirintiche, del resto, inseguono le forme del futuro attraverso le tracce della memoria, tanto che il DNA fluttua come le onde del mare o come le tracce di un’antica civiltà primitiva.
Bruto insegue il segreto dell’uomo e non è affatto casuale che Codici Algenici venga inserita nella programmazione della manifestazione Noir in Festival 2002 che quest’anno ha per tema i Segreti.
Ecco, Bruto, da buon investigatore, rende visibile l’invisibile aiutandoci ad entrare in contatto con la sfera intima e sconosciuta del nostro essere.
Ma non siamo nell’ambito della fantascienza, bensì della scienza. “L’alba di una nuova era è già cominciata!”, proclama Bruto con lo stesso tono dei futuristi che all’inizio del secolo firmavano i loro manifesti.
In effetti, la sua opera ha il merito etico e filosofico di andare alla ricerca di quell’alieno che fa parte di noi stessi. Non è più un corpo estraneo ma un’alterità intrinseca all’io in un continuo raddoppiamento dell’immagine, come avviene proprio in quella sorta di monitor pittorici costruiti da Bruto nella pancia delle sue opere astratte.
Là danzano le forme primigenie rispecchiandosi le une nelle altre in un duetto di immagini transitorie in continuo movimento.
Se l’Algenia tende alla costruzione dell’individuo perfetto, osservando le opere di Bruto vengono in mente le parole di Max Born: “Il progresso, nella fisica, è sempre passato dall’intuizione all’astrazione”
Non c’è alcun dubbio, infatti, che Bruto sia riuscito a trasformare il principio scientifico in principio pittorico manipolando i codici delle due scienze e costruendo un proprio universo estetico caratterizzato dal desiderio assoluto di autocoscienza. Bruto ha la capacità di modificare il rapporto tra gli elementi sviluppando una propria narrazione nella quale gli alieni ci appartengono.
Il segreto non va cercato altrove. Convive con noi e lo sa bene William Gibson che inizia il suo romanzo Giù nel ciberspazio con la ricostruzione chirurgica del suo principale personaggio dilaniato da un’esplosione:
“Il chirurgo olandese ci scherzava sopra dicendo che una percentuale non specifica di Turner non ce l’aveva fatta a partire dal Palam International con il primo volo e aveva dovuto passare la notte in un magazzino, in una vasca di mantenimento.
Gli ci volle un mese, all’Olandese e alla sua squadra per rimettere insieme Turner. Clonarono un metro quadrato di pelle facendola crescere su lastre di collagene e polisaccaridi di cartilagine di squalo. Comprarono gli occhi e i genitali sul mercato libero. Gli occhi erano verdi (…). E un giorno si svegliò in un letto estraneo, l’Olandese stava in piedi vicino alla finestra dalla quale si riversavano verde tropicale e sole abbacinante. “Può tornare a casa, Turner. Abbiamo finito con lei. è come nuovo!”.
Codici algenici, appunto.
Alberto Fiz
Dal catalogo della mostra “Codici Algenici”, Courmayeur 2002- 2003