Caterina Zappia: “Bruto Pomodoro: l’astrazione come scelta e necessità”

Nel 1907 Wilhelm Worringer[1] affermava che la rappresentazione realistica nasce dalla fiducia nel mondo materiale, e che per contro l’astrazione, associata al primitivismo e all’ornato geometrico, dà voce all’esigenza di spiritualità, rifugio dall’angoscia del proprio tempo. Se si accetta questa tesi, avvalorata da Riegl, teorico della necessità psicologica della rappresentazione degli oggetti, risulta evidente come per gli artisti di quest’alba del XXI secolo non esista alternativa alcuna all’astrazione, e per un artista come Bruto Pomodoro, nato scienziato, dunque gravato da una maggiore consapevolezza dei guai e dei danni che l’uomo ha inflitto a se stesso e al pianeta, la scelta dell’astrazione diventa ineluttabile.

Come ineluttabile sembra che Bruto attinga dalle proprie conoscenze scientifiche l’elemento principe della propria poetica: la cellula che da inizio alla vita, forma primigenia, caricata di significati mitici sia dall’inconscio individuale come da quello collettivo. La rappresentazione del DNA, archetipo biologico, filosofico e psicoanalitico, idea innata e predeterminata, diviene il nucleo di ogni creazione di Bruto Pomodoro. Nucleo che espande nell’ambiente la propria energia e al contempo si nutre di quella liberata dallo spazio circostante, e che, pur nel rispetto delle regole della termodinamica, viene manipolato da Bruto mediante il ricorso, ignoro fino a che punto consapevole, a certi precetti di euritmia e regolarità dettati da Riegl. Nelle sue opere il nucleo primigenio, commutandosi in simbolo di nascita e di morte, si fa motivo teosofico e insieme ornamentale, dando origine a forme archetipiche, desunte ancora in modo più o meno consapevole dall’attrezzistica della simbologia umana: croci celtiche, yin-yang, elementi dell’arte protocolombiana o di quella aniconica islamica.

Bruto Pomodoro cerca consolazione nell’antica filosofia orientale e nella scienza, due discipline apparentemente inconciliabili, ma, a ben guardare, basate entrambe sul concetto di morte non come conclusione, bensì momento di passaggio, trasmigrazione da una forma all’altra della materia.

E proprio la materia offre all’artista il pretesto per nuove meditazioni; il piano della tela o delle preziose carte a mano, preparate appositamente per lui da un laboratorio bolognese, diventa supporto insufficiente per ospitare le forme oggetto della sua speculazione biologica e astronomica, psicologica ed estetica; la pura finzione della superficie dipinta non basta più a Bruto che, alla ricerca della tridimensionalità, sperimenta il collage.

Il nucleo si trasforma allora in Sagomato, attraverso il quale misurare il piano d’intreccio dei singoli elementi delle forme archetipiche. Organizzando ordinatamente ogni elemento, costruisce un reticolo fitto e prezioso come un ricamo, e quindi disgrega nello spazio le singole forme lasciandole fluttuare nel vuoto; vuoto cosmico, buio profondo, a tratti lacerato da improvvisi fasci di luce, che evidenziano brani di tessuto pittorico. La pittura, grazie all’uso delle carte incollate e colorate, si fa tarsia, traforo messo in rilievo dall’intaglio e dallo scavo.

Da qui alla ricerca del tutto tondo il passaggio è breve e inevitabile. Lo spazio diventa la cavità che ospita l’origine della vita, l’energia generata dall’equilibrio degli opposti, dall’armonia delle forme bilanciate.

Un intreccio di forme plastiche, tale da rammentare quelle dei rosoni delle cattedrali romaniche, nato dal ribaltamento speculare del singolo elemento che, compenetrandosi, cresce in modo da rendere impossibile isolare visivamente la singola forma costruttiva del tutto.

Il bisogno di ordine e la ricerca della sintesi spingono presto Bruto al ritorno alla purezza della forma singola, ottenendo sagome morbide – nel mondo organico le forme sono sempre arrotondate e smussate – e armoniche, variabili e inafferrabili come le nuvole, leggibili in ogni posizione, e capaci di mutare il loro significato estetico col mutare del punto di vista.   Di vago sapore surrealista i Disgiunti evocano le donne osso di Picasso, Arp, Moore, e ancora e sempre Kandinskji, miniera inesauribile di motivi e forme, nell’indagine del rapporto tra arte e scienza, arte e geometria, arte e musica.

L’onestà intellettuale, ma anche la consapevolezza di aver ormai dato vita ad un lessico personale, ben connotato e riconoscibile, portano Bruto a dichiarare le proprie fonti, cosa rara nel mondo dell’arte figurativa, dominato da sterilità culturale e dall’appropriazione scorretta e celata di altrui formule.

Alla ricerca formale fa riscontro un’indagine fatta sui materiali, una sfida al loro modo di reagire alle manipolazioni da parte dell’artista. Materiali tradizionali come il marmo o la ceramica, ma anche le più moderne resine, che Bruto scava, intaglia o cola già mescolate a pigmenti colorati. Altre volte ottiene la forma voluta dalla resina colata pura e interviene solo successivamente col colore, creando preziose variazioni tonali; altre ancora lascia la resina incolore, e, attraverso un paziente lavoro di lisciatura e lucidatura, ottiene effetti “ghiacciati” simili a quelli del cristallo. Mai stanco di sperimentare, attualmente sta compiendo delle ricerche sulle polveri fotoluminescenti, che conferiscono un’aura magica alle sue forme pur sempre desunte dalla scienza e dalla geometria. L’approdo alla plastica è dunque solo una tappa inevitabile di un personale percorso, ma forse anche il consegnarsi finalmente al richiamo del proprio DNA, l’orgoglio del confronto con quei suoi consanguinei che hanno saputo farsi protagonisti della scultura italiana del Novecento.

 

Caterina Zappia

Firenze, 5 Aprile 2009

 

[1] Wilhelm Worringer, Abstraktion e Einfühlung: ein Beitrag zur Stilpsychologie, Monaco, 1907