Martina Corgnati: “A-priori e Sfumature”

Tutto prende origine dalla matrice, il codice.
Il codice è un insieme di informazioni, la cui disposizione, nelle tre dimensioni, dà luogo a una forma. Il codice è, tendenzialmente, simmetrico, ma la simmetria qui non va intesa come un mero, necessario raddoppiamento meccanico. La simmetria è intreccio, incastro, principio attivo e attivante. Se poi ci prefiggiamo di considerare il piano, come la fisica ci suggerisce, non come semplicistico elemento bidimensionale ma come proiezione di una spazialità almeno tridimensionale che si articola in profondità, ebbene allora saremmo certi e sicuri che il nostro occhio non rintraccia immediatamente tutte le espressioni possibili della simmetria, appunto, nell’immagine che abbiamo di fronte.

Sto parlando, beninteso, di Bruto Pomodoro, uno dei pittori contemporanei più seri (un aggettivo in apparenza presuntuoso ma pertinente nel suo caso) e attenti al discorso della scienza, nel cui ambito, non per nulla, si è formato.

Nessun limite, sia chiaro, anche se alcuni sembrano averlo temuto o paventato il rischio di una possibile lettura “prevenuta” in questo senso: Bruto Pomodoro è in eccellente compagnia nella schiera degli artisti (in senso lato)/scienziati, che comprende fra l’altro Burri (medico), Dorfles (medico e psichiatra) e Nabokov (entomologo così geniale da aver scoperto e battezzato numerose specie di farfalle). Tutte figure che, grazie alla conoscenza profonda e alla comprensione del linguaggio scientifico, hanno arricchito in modo personale e straordinario il loro lavoro artistico, proprio rendendo visibili certe configurazioni che stanno alla base della matematica o della vita e della natura; con l’aggiunta, naturalmente, di una componente emozionale più o meno intensa.

Per quanto riguarda Bruto Pomodoro non si tratta, almeno non immediatamente, di emozione quanto di struttura, di simbologia e di sensibilità. A-priori e sfumature: l’artista scopre, sa di questa matrice che determina a-priori l’organizzazione degli organismi; in una serie di opere recenti la chiama “algenica”, facendo riferimento esplicitamente alle istanze perfezioniste che stanno alla base di molta recente genetica, soprattutto nelle sue componenti ingenieristiche e modellistiche. Il codice è un nucleo che implica e ricomprende in se stesso elementi ad alto tenore simbolico come il cerchio, l’ovale, la spirale; linee curve, dispiegate nello spazio. Esso, lo sappiamo dal DNA, si ripresenta sempre uguale in tutte le cellule che formano un determinato individuo e con variazioni infinitesimali in tutti gli individui della stessa specie e poi, con margini di differenziazione via via crescenti, della stessa famiglia, ordine, classe, regno. Fin qui, ovviamente, la scienza.

Ma meno noto e assai più inquietante è che forme simili, codici, potremmo dire, algenico-simbolici, si ritrovano nel guscio di certe conchiglie fossili all’alba della vita; nella disposizione delle galassie, nella crescita dei cristalli. Bruto non me ne voglia se, accennando a queste cose, la mia imprecisione è quella del dilettante della specie peggiore, il più superficiale. Voglio solo dire che l’universo è pieno di ricorrenze, riscontrabili sin nell’infinitamente piccolo delle particelle subatomiche e del loro comportamento; e che questo eterno ritorno dell’uguale o del simile ha commosso Einstein e fa pensare all’Assoluto.

Bruto Pomodoro, invece, dilettante in materia non lo è affatto e, ripercorrendo di recente in poche righe la sua storia, dalle aule di biologia all’illustrazione scientifica e alle sale dei musei, ha insistito per mettere in evidenza il carattere generativo, formativo e, al tempo stesso, le connotazioni affascinanti di questa costante che denomina, propriamente, “archetipo” (ma un archetipo assai differente, ancora più primario di quelli junghiani).

Embriologia, leggi fondamentali: l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, in altre parole: la storia evolutiva di ogni singolo vivente ripercorre le tappe fondamentali dell’evoluzione della vita, in altre parole: c’è uno stadio in cui l’uomo, o meglio la forma umana è del tutto analoga a quella del dollaro di sabbia, un echinoderma capostipite dei vertebrati. Poi, ecco che in zone dal nome conturbante – territori presuntivi – che la matrice sembra conoscere già, conoscere da sempre, le architetture del nuovo organismo si vengono definendo in base a un’organizzazione tanto tendenzialmente perfetta quanto sconosciuta.

Il lavoro di Bruto Pomodoro si aggira in questi paraggi anche se, da anni, si è affrancato dalla necessità di farsi replica fedele di morfologie date, di schematismi definiti in ambiti estranei all’arte e, in particolare, all’arte sua. L’artista parla infatti, e giustamente, a questo punto, di avanguardie, di forme organiche, di Arp, proprio Arp che, nel suo lavoro plastico e scultoreo maturo, prende in considerazione il processo di crescita, additivo e conturbante, di certi vegetali, o spore, o colonie di cellule. Anche nelle matrici o archetipi di Bruto Pomodoro si ritrovano linee curve e forme organiche, ma non coinvolte in processi di libera (cioè casuale) espansione, bensì chiarificati nella loro epifania, ben definiti nella loro presenza simbolica e pittorica, come architetti segreti, impulsi generatori di spazio, o meglio, criteri di configurazione di un sistema spazio-temporale di volta in volta sapientemente variato.

Gli archetipi infatti, in quanto archè, non solo ci sono sempre stati ma sostengono anche, implicitamente, il ruolo di principi compositivi di ogni singola opera, sia che si trovino circoscritti in invasi ben delimitati (Codice algenico – Dimora dell’archetipo , opere del 2002 o precedenti), sia che, invece, siano liberati e sospesi fra le articolazioni più o meno geometrizzanti del dipinto stesso, liberamente interferenti con l’insieme, eppure differenti, estranei a ogni circostanza perché ricorrenti in ogni circostanza.

È qui, indubbiamente, l’inizio, il motore immobile di ogni divenire, di ogni processo. Qui il senso. Non a caso l’artista, giova sottolinearlo, tratta questa forma fondamentale con infinita accuratezza e ricchezza di sfumature, la accarezza, si potrebbe dire, col pennello. Gli archetipi, infatti, presentano toni cromatici vivi, pulsanti, ombreggiati, morbidi, profondi, soprattutto nelle opere dipinte negli ultimi anni, dopo il 2000 (Codici algenici e Archetipi). Bruto Pomodoro non si concede sbavature e si concentra sulla consistenza, vibrazione e pregnanza di questi cromatismi raffinati, trasparenti, che di volta in volta descrivono epidermidi setose o vellutate, congiunzioni di complementari, di opposti, di freddo e di caldo, argenteo e dorato, positivo e negativo (ancora simmetrie, o specularità).

Non è così dappertutto: per l’archetipo è una questione di pelle, c’è una pelle, altrove la superficie, l’area cromatica risulta più compatta e impermeabile, più “minerale”, per parafrasare un aggettivo caro a Roberto Longhi, o asettica. La scelta dei timbri è sinfonica, raffinata: i rossi si accordano ai bruni, come per intima amicizia, le sabbie agli ocra, i blu ai grigio ghiaccio, agli acquamarina, ai cobalto, ai verdi e agli smeraldi. Ogni opera si propone quasi come un concerto visivo di forme, linee ma anche toni di colore dove le varianti si susseguono e si alternano, abbracciando quante più sfumature possibili. Bruto Pomodoro non teme le ricadute in senso decorativo di queste articolazioni cromatiche e della combinazione di forme astratte e toni pieni e godibili: d’altra parte la tradizione europea, la nostra tradizione, basata ab antiquo sulla pittura ad acqua, si è sempre avvalsa dell’elemento decorativo astratto (dalla greca all’entrelacs) per impreziosire oggetti e opere, intese nel senso più ampio.

Non è certo una novità che il nostro secolo presenti un ricorrente interesse nei confronti delle arti primitive, ma oggi possiamo interpretare questa riflessione sul passato in modo più articolato e complesso di una semplice tensione alla purezza delle origini. Da Levi Strauss in avanti l’antropologia insegna che lo spazio mentale delle culture primitive non è affatto primitivo; piuttosto che di rozza riproduzione della realtà per mancanza di mezzi migliori, adesso è opportuno parlare di processi mentali compositi, eseguiti con mezzi adeguati, in cui confluiscono rito, mito, ritmo, conoscenza, immagine, segno, simbolo, alfabeto, processi di costruzione di uno spazio mentale costituito da parametri che lo sviluppo della nostra civiltà ha in parte dimenticato. L’interesse alle arti primitive mira dunque a riallacciare i fili di una memoria profonda sgualcita fra le pieghe della storia. D’altro canto stiamo imparando a considerare come opere d’arte oggetti che sino a poco tempo fa leggevamo come semplici reperti del passato.

Matisse, che probabilmente conosce il pensiero di Paul Valery sulla decorazione quale strumento di lettura delle diverse porzioni di spazio e di tempo attraverso la storia, fissa la decorazione quale strumento alto del processo creativo. Negli stessi tempi Loos, con le avanguardie, afferma che la decorazione è un delitto. Ma la contraddizione è solo apparente: la decorazione negata è quella ormai svilita, puro disvalore rispetto a un pensiero che distingueva sulla scala neoplatonica gli scalini alti, creativi, di competenza degli artisti, e gli scalini bassi, l’ornamento, lasciati alla competenza dell’artigiano.

Incontrando l’arte dei paesi che non conoscevano questo nostro sistema sociale, Matisse intuisce che il problema non è soltanto quello delle differenze d’immagine, spesso utilizzato come tale dalle stesse avanguardie, ma che la decorazione, in queste diverse culture non è orpello, sovrapposizione, bensì ritmo, strumento di conoscenza a partire dal ritmo delle semine e dei raccolti, strumento di poesia dal ritmo orfico, di musica dal ritmo delle percussioni, strumento del vivere quotidiano fortunatamente non dimenticato.

Dunque il rapporto con il primitivo, con la decorazione, nel caso di Bruto Pomodoro non va guardato come una fuga all’indietro, un pò ridicola nel tempo del computer, ma come la necessità di memoria profonda, del tutto analoga a quella implicata dalla presenza degli archetipi; una memoria che riconosciamo profetica nel momento in cui i progressi della cibernetica aprono nuove ipotesi di conoscenza.

Pomodoro, infatti, recupera anche il Bauhaus, Albers in particolare, riproponendo con insistenza un utilizzo del quadrato simbolico e geometrico, quadrato prima chiuso e statico, poi animato da diagonali e fughe, poi finalmente aperto, a dilatare nello spazio le conoscenze segrete di cui l’archetipo è portatore, conoscenze precise ed esatte come il percorso iniziatico che porta alla bellezza.

Una metafora della conoscenza, dunque, ancora; o la conoscenza stessa in una delle sue tante forme possibili, certo diversa da quella che esiste allo scopo di esorcizzare l’ignoto (la conoscenza dei perché), di fornire delle risposte ma piuttosto di porre delle domande. Il problema, infatti, è di come le cose avvengono, come si dispiegano le leggi che dal più remoto passato delle cose, delle forme e dei saperi, si protendono verso il futuro di ciò che è in nuce. Di ciò che in ogni nuovo dipinto si ripresenta singolare, con le forme ricorrenti della pura potenzialità e con il ritmo decorativo delle linee curve. Ecco che in questo gli atti rituali dello sciamano e le operazioni analitiche dello scienziato finiscono per coincidere. E l’archetipo risplende di sempre nuove sfumature.

Martina Corgnati

Dal catalogo della mostra “Codici Armonici”, Ed il Vicolo