L’osservare (ma forse si dovrebbe dire contemplare, mettendosi dalla parte dell’autore) queste ultime opere di Bruto Pomodoro sembra imporre un ragionamento su simmetrie di rappresentazione imposte visivamente per opposti. Come se lo scopo, per esempio, fosse quello di procedere per variazioni di immagini che dovrebbero darsi come invarianti, ma, appunto, messe in crisi dall’uso simbolico che ne viene fatto. E si tratta, sicuramente, di un simbolismo geometrico per il quale è sempre la struttura complessiva dell’opera a emergere per prima e con evidenza, la trama, o gabbia, o schema (quasi didattico, di catalogazione di tipo oggettivo), che inviterebbe ad una percezione “optical”, astrattizzante, se poi all’interno di queste definizioni di campo non irrompessero elementi contraddittori, di tipo organico.
Fra i quali, ossessiva, la forma dell’uovo, vero e proprio nucleo generativo, segnale – tanto simbolo quanto biologico – di un processo di trasformazione. Continuo, ma come chiuso in un sistema. E forse non a caso questi elementi che con insistenza alludono al codice genetico vengono quasi sempre esposti “a parte”, circoscritti, come campioni esemplari di quella serie di eventi che ogni opera contempla. Come se ogni opera fosse un momento, immobilizzato, della replicazione, mutazione, selezione, ecc. lì rappresentate.
E come se ogni momento fosse comunque l’origine.
Credo che sia in questo senso che Bruto Pomodoro parla di archetipi biologici.
Dal punto di vista formale, la pittura si esprime, se così si può dire data la sua rigorosa limpidezza anti-emozionale, con totale coerenza. Il colore è disteso, controllato, non “espressivo”, per sottolineatura delle scansioni del sistema geometrico, e solo si ammorbidisce nelle tenere e accurate ombreggiature riservate unicamente agli elementi di natura organica, che si articolano a spirale, a elica, a fiore, in un meccanismo da Yin e Jang, simulando complessità e movimento. Solo in un caso Bruto Pomodoro si spinge a descrivere naturalisticamente un uovo aperto, mostrandocene l’interno, il tuorlo come cuore, la valenza fisiologica di tutto il ragionamento che sta sotto questa sua pittura, e imprevedibilmente l’effetto è così forte da sembrare surreale, allucinato.
Se, come è anche possibile, si tratta di “teatrini alchemici”, è da questo gioco di contrastanti presenze che sorge il fascino di immagini che dicono di un progress fissato nell’immobilità.
Ed è su questo che probabilmente si fonda la decisione di definire un simile gioco di riflessi (interno-esterno, ecc.) con il termine “contemplazioni”, che suggerisce, insieme, un atteggiamento di distanza estatica e un profondo coinvolgimento nello stupore della cosa osservata. Alla fine, si potrebbe avanzare l’ipotesi che Bruto Pomodoro stia tentando di ricostruire visivamente le trame di un enigmatico processo di crescita fra l’insondabile arbitrio del caso e la tremenda legge impersonale della necessità.
Roberto Sanesi
Cesena, Riccione, Siena 1997